Afghanistan, dal 2004 sono morti 53 soldati italiani in missione di pace: a cosa è servito il loro sacrificio?

Di Giuseppe Scarpa – In 53 sono morti in Afghanistan. Militari partiti non per svolgere “semplicemente” il loro lavoro ma per portare pace, democrazia e libertà in un Paese che era sotto il giogo di un regime teocratico.

Non è semplice retorica. Perché nelle parole di chi ha perso un fratello, un padre, un marito, è sempre nitida la motivazione nobile che aveva spinto i loro cari ad andare a Kabul o a Herat: «Una missione». Ma ecco che dopo 20 anni dalla caduta dei Talebani i fondamentalisti hanno di nuovo conquistato il potere nel Paese. E allora i parenti di chi ha dato la vita per un Afghanistan libero e democratico si chiedono se alla fine il loro sacrificio sia servito a qualche cosa. L’idea che la morte sia stata vana e inutile è un pensiero che si insinua. La convinzione che siano morti per uno scopo inizia a diventare un certezza che vacilla.

«Adesso cosa racconto a mio figlio? Come gli giustifico la morte del padre? Prima potevo: “Stiamo aiutando un popolo a liberarsi, e quello di tuo padre è stato un grande sacrificio”, gli dicevo. Adesso è più complicato, perché tutto è tornato come prima. Allora a cosa è servita la morte di Manuel?» Nessuno sa dare una risposta a Federica, 37 anni, la moglie di Manuel Braj, carabiniere scelto.

Aveva 30 anni quando è stato ucciso in Afghanistan il 25 giugno 2012. Lo ha centrato un razzo lanciato dai talebani. Il figlio, all’epoca, aveva 8 mesi, oggi ha dieci anni e inizia a capire. «Sono confusa, triste, spiazzata, addolorata, delusa, amareggiata – aggiunge Federica – Sto cercando di elaborare. Ma è difficile». Il nome di Manuel è nella lista dei 53 militari che hanno dato la loro vita per un Afghanistan democratico.

I CADUTI
Il 3 ottobre del 2004 è il giorno che segna il primo lutto, muore il caporal maggiore Giovanni Bruno, 23 anni. L’8 giugno del 2013 l’ultimo, il 53esimo. L’Italia piange ancora. Le lacrime sono per il maggiore Giuseppe La Rosa, 31 anni, del 3° Reggimento Bersaglieri della Brigata “Sassari”. L’attentato è rivendicato dai talebani. Sono 32 le vittime di azioni ostili. Una decina i morti in incidenti stradali, altri per malori, un militare si è suicidato. I feriti sono stati 700. Ma oltre al sangue versato c’è un fiume di soldi speso in due decenni, 8,7 miliardi per finanziare prima “Enduring Freedom” e poi “Resolute Support”.

Manuel Braj – inquadrato nel 13/o Reggimento Friuli Venezia Giulia – perde la vita in un campo d’addestramento della polizia afghana ad Adraskan, distretto della Provincia di Herat, nella parte occidentale del Paese. I talebani lanciano un razzo Rpg e lo colpiscono. «È caduto per dare un futuro a quel Paese. Ma adesso quel futuro non c’è più», ripete sconsolata Federica. Il presente è di nuovo sotto il tallone dei fondamentalisti. La più rigida interpretazione dell’Islam diventa di nuovo la legge dello Stato. L’ingresso in forze degli estremisti islamici nella capitale ha riportato a galla i ricordi della donna. Un passato che pensava di aver compreso. «Oggi mi sembra essere tornata indietro di 10 anni. A quel giorno in cui mi dissero che Manuel era morto. So solo che sto soffrendo, che sono senza parole. Mi rendo conto di essermi svegliata ogni mattina con un pensiero. “Quello che ha fatto è servito”. Adesso forse non può essere questo il ragionamento. Allora uno cerca di non pensare, però quando ti capitano certe situazioni, anche non volendo, inesorabilmente ti ritrovi a riflettere». «Io voglio fare uno sforzo – aggiunge Federica – voglio vedere un minimo spiraglio. Voglio sperare che non sia finito tutto qui, con i talebani che marciano per le strade di Kabul».

Lo sconforto è lo stato d’animo che accomuna i parenti delle vittime. Claudio La Rosa è il fratello di Giuseppe La Rosa, ufficiale dell’esercito ucciso in Afghanistan l’8 giugno 2013 a Farah. «Sono molto dispiaciuto per la presa del Paese, della Capitale da parte dei talebani».

 

IL SACRIFICIO
Il maggiore a 31 anni sacrifica la vita per salvare i soldati sotto la sua responsabilità. Una bomba viene lanciata dentro il Lince, il blindato dell’esercito, Giuseppe La Rosa si butta sopra l’ordigno. Il suo corpo diventa uno scudo umano. Gli altri militari dentro il mezzo si salvano. Ferite non gravi. Al 31enne, originario di Barcellona Pozzo di Gotto, devono la loro salvezza. «Io mi chiedo – racconta il fratello Claudio – com’è possibile che sia avvenuto tutto così rapidamente? Ci siamo stati venti anni lì. Giuseppe si occupava dell’addestramento dell’esercito afghano. Però poi mi dico, “non voglio essere pessimista”. È vero, guardando le immagini in tv di domenica all’inizio ho pensato “la sua morte è stata vana”. Adesso però gli afghani possono confrontare un Afghanistan libero e uno sotto i talebani. Questo potrà, mi auguro, spingere il popolo a sollevarsi contro i fondamentalisti. Spero davvero che questo possa accadere e allora la scomparsa di mio fratello non sarà stata vana».

La restaurazione del regime talebano riporta alla memoria il dolore anche in chi ha avuto dei cari uccisi in altri conflitti simili. Il 12 novembre del 2003 moriva a Nassirya, in Iraq, il vicebrigadiere dei carabinieri Domenico Intravaia, 46 anni. L’attentato provocò 28 morti, 19 italiani e 9 iracheni. Tutti vittime della deflagrazione del camion cisterna carico di esplosivo davanti all’ingresso della base Msu (Multinational Specialized Unit). Quel giorno Marco, il figlio del vicebrigadiere, aveva 16 anni: «sto vivendo questo momento con tantissima amarezza, soprattutto pensando al sacrificio di mio padre e le notizie che arrivano dall’Afghanistan non possono che addolorarmi. Non possiamo – dice – consentire al terrorismo di vincere».

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