Altro che Ius Soli, Jacob è un vero italiano per sangue: campione e patriota che ha rinunciato alla cittadinanza Usa

Di Eugenio Palazzini – Roma, 2 ago – Ma quale ius soli, giù le mani da Marcel Jacobs. La propaganda politica a cui assistiamo in queste ore, purtroppo destinata a protrarsi a lungo considerate le boldrinate all’uopo di certi commentatori, è una sinfonia di cortocircuiti. Psichedelico caleidoscopio impugnato da chi le idee le ha già confuse e finisce ancor più per offuscarsi la vista di fronte a una realtà che non andrebbe commentata a vanvera. L’impresa di Marcel Jacobs è semplicemente straordinaria e come tale andrebbe onorata. Evitando stucchevoli baggianate sulle cittadinanze non concesse e sul presunto razzismo che albergo nella nostra società.

Altro che ius soli, Marcel Jacobs è da sempre italiano

Perché Jacobs è italiano figlio di madre italiana, ergo per ius sanguinis. E’ italiano forse più di chiunque altro, perché lo è nel sangue e perché ha scelto di esserlo fino in fondo. Lui, nato quasi per caso in Texas. Lui che fino al 2015 ha avuto pure la cittadinanza americana (meglio, statunitense) ma che poi ha deciso di non rinnovarla. “Ho vissuto negli States pochissimo e, a 1 anno circa, ero già in Italia, perché mia madre è italiana e ho vissuto tutta l’infanzia e l’adolescenza a Desenzano”, spiegò Jacobs in un’intervista concessa a SportMediaset lo scorso marzo. “Per quanto riguarda la cittadinanza americana in realtà mi è scaduta nel 2015 e non l’ho più rinnovata“. Ed è sempre lui che appena tagliato il traguardo è corso ad abbracciare Tamberi avvolto nel Tricolore e che subito dopo lo ha invocato quel Tricolore, visto che nessuno glielo stava dando. Ed è ancora lui, l’italiano che non vuole essere americano, che appena è stato catturato da un cronista ha semplicemente detto: “Domani non vedo l’ora di sentire l’inno sul gradino più alto del podio“.

Più veloci, più forti, più in alto 

Così in pochi attimi Marcel Jacobs si è trasformato in una leggenda vivente, orgoglio di un intero popolo italiano e fiero di esserlo, italiano. Esattamente come fiero di essere italiano è quel centometrista che ieri ha stupito il mondo e che è corso ad abbracciare l’altro stupor mundi tricolore: Gimbo Tamberi. Più veloci, più forti, più in alto di tutti. Fuori di filologia, una perfetta traduzione sportiva del motto olimpico: citius, altius, fortius. Questa è l’Italia, signori, per un giorno e per sempre. Una nazione di 60 milioni di abitanti che continua a fornire lezioni al mondo, nonostante una classe dirigente allo sbando da decenni. Malgrado una pervicace servilità che contraddistingue chi dovrebbe fungere da faro e finisce per spegnere la luce ogniqualvolta affrontiamo la tempesta. Qua dove non si investe in strutture sportive, qua dove abbiamo relegato l’educazione fisica ad ora d’aria per studenti impigriti.

La forza dorata

Eppure siamo lì, siamo sempre lì, a battagliare e compiere imprese memorabili. Non c’è Paese-continente che tenga (a proposito di Usa, a proposito di Cina etc.) quando ci mettiamo in testa di incarnare quel misterico spirito che da millenni soltanto noi abbiamo. Forza dorata che ci esalta e spinge a smentire pure il paradosso di Zenone. Ci facciamo beffe di illusioni e talloni, saltando a piè pari le avversità allorché si presentano. Ed è forse questo l’unico vero paradosso, tutto italiano. Se ci date per vincenti, possiamo perdere, perché tendiamo a cullarci tra allori concessi in partenza. Se ci bollate come vinti, prima di cominciare la battaglia, siete con tutta probabilità destinati alla sconfitta. Nessuno avrebbe scommesso un fiorino bucato su Jacobs. Quindi Jacobs ha sorriso, ha chiuso gli occhi, ha pensato che Gimbo aveva saltato più in alto di tutti. E ha corso, come un Achille che non si cura della tartaruga. In pista l’unico animale totemico era un gesso posato a terra da Gimbo, sublime rito scaramantico che soltanto un italiano poteva contemplare. Cantatela adesso Volare, amici stranieri. Cantatela quella simpatica canzone da rosa dei venti. Perché l’Italia può volare davvero.

Eugenio Palazzini

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