Luca Ricolfi demolisce il Ddl Zan: “Bullismo etico della sinistra. Un atto di pura prepotenza culturale”

Di Lucido, diretto, spesso tranchant. Luca Ricolfi all’establishment progressista piace poco. “Pochissime recensioni, nessuna intervista, rari inviti in tv”. Fuori dai salotti che piacciono alla gente che piace, ma teme il “confronto di idee”. Mentre a citare come faro dell’indipendenza di pensiero il sociologo, da sempre di sinistra, ci pensa la destra.

Un ribaltamento di ruoli ormai evidente nella politica spaccata in due sul ddl Zan. Da una parte, una sinistra prona alla prepotenza progressista, che ‘bullizza’ chi non si sottomette ai suoi diktat. Dall’altra, la difesa della libertà di espressione che diventa prerogativa di una destra sempre “un po’ più di sinistra”.

Il ddl Zan dovrebbe approdare in Senato entro la metà di luglio. Ma la scia di polemiche che lo accompagna è lontana dall’essere archiviata. La sua posizione a riguardo è netta: l’ha definito il “cavallo di Troia del politicamente corretto”, cosa intende?

“Intendo sottolineare il suo carattere proditorio. Basta leggere i disegni di legge precedenti, Zan-Annibali e Scalfarotto-Zan, entrambi ragionevoli e accettabili per chiunque (destra compresa), per rendersi conto che con il ddl Zan la cosiddetta comunità LGBT ha visto una ghiotta occasione di imporre a tutti la propria, specifica e minoritaria, visione del mondo: un atto di pura prepotenza culturale”.

Quale tra gli “effetti aberranti” del disegno di legge teme di più?

“L’articolo 1, il più temuto anche dal mondo femminista, perché scatenerebbe un uso opportunistico della scelta soggettiva del genere, con i carcerati che chiedono il trasferimento nei reparti femminili, gli atleti ‘ex maschi’ che gareggiano con le atlete, e più in generale l’assalto ai benefici di genere, ossia riservati a uno dei due sessi. E poi l’articolo 7, che apre le porte all’indottrinamento degli scolari e – nella misura in cui sancisce per legge che il genere è una questione di scelte soggettive – rischia pure di suscitare dubbi, e innescare crisi esistenziali, in un periodo della vita molto delicato per qualsiasi ragazzo o ragazza”.

C’è bisogno davvero di una legge ad hoc contro l’omotransfobia o in fondo basterebbe l’impianto vigente?

“Prima di rispondere alla domanda, mi consenta una riflessione linguistica. Le parole con il suffisso ‘fobia’ (paura), tipo omofobia, transfobia, ma anche xenofobia, andrebbero completamente bandite dalla legge penale, e sostituite con parole che utilizzano suffissi derivati dal greco ‘misein’, odiare, come correttamente già avviene quando si parla di misoginia (odio verso la donna), o di misantropia (odio contro gli esseri umani). Già è assurdo e illiberale sindacare sui sentimenti, ma è ridicolo demonizzare la paura. In una società libera ognuno ha il diritto di provare i sentimenti che vuole, e stigmatizzare la paura è semplicemente un non senso”.

Quindi serve o no?

“Dipende. Se si accetta che lo strumento per combattere le discriminazioni e la violenza sia la legge Mancino, non si può non riconoscere che quella legge è incompleta, perché dimentica omosessuali e transessuali, nonché una caterva di altre categorie talora oggetto di atti aggressivi più o meno gravi: ad esempio i disabili, i barboni, i bambini ‘diversi’ in quanto grassi, timidi, secchioni, con pochi like,
eccetera. Ma, più ci penso, più mi convinco che il difetto stia nel manico, cioè nella legge Mancino, ovvero nell’idea che per combattere violenza e discriminazioni la strada sia quella di moltiplicare le categorie protette: l’elenco delle categorie degne di protezione, infatti, è arbitrario e potenzialmente illimitato”.

Quanto c’è di vero nell’endorsment della sinistra? Intercetta un’istanza sentita dalle masse o insegue i trend dettati da un’élite di pseudo influencer?

“La seconda che ha detto”.

Lei che conosce bene le pieghe della società, qual è lo sfondo culturale che ha trasformato, proprio ora, la legge contro l’omotransfobia in una necessità? In fondo la sinistra è stata al governo dal 2013 fino al 2018, poteva farlo prima…

“Forse conosco ‘le pieghe della società’, ma ignoro quasi del tutto quelle della politica. Perché sono stati fermi nel 2013-2018? Mah, forse pensavano di non avere i voti al Senato, forse non volevano irritare il Vaticano, forse erano troppo impegnati sul versante dei migranti. Insomma: non lo so”.

Ma non è che per essere sempre ‘più civili’ diventeremo sempre meno liberi? Penso anche alla polemica sull’inginocchiarsi o meno. Chi non lo fa viene considerato automaticamente razzista…

“Siamo già molto meno liberi anche di solo 20 anni fa. Io noto questa differenza: nell’ultima parte del secolo scorso il politicamente corretto era un modo di affermare la propria superiorità morale, nel XXI secolo sta assumendo tratti intimidatori. È un passaggio sociologicamente molto importante, perché segnala una pericolosa mutazione dell’establishment progressista. Ieri si accontentavano dell’egemonia culturale, oggi aspirano al dominio. Dalla ‘maestrina dalla penna rossa’, al prepotente che umilia chi non si sottomette. Dal pavone al bullo. È per questo che, oggi, io non parlo più di ‘razzismo etico’ (una espressione coniata vent’anni fa da Marcello Veneziani), ma mi sento costretto a parlare di ‘bullismo etico'”.

Se chi vota (a giudicare dai sondaggi impietosi) e soprattutto una parte, le nuove leve, dentro il Pd si sgola per dire che le battaglie sono altre, perché la sinistra insiste?

“Perché la base sociale della sinistra, da almeno 30 anni, sono diventati i ‘ceti medi riflessivi’ (così li battezzò lo storico Paul Ginsborg), e la sua base popolare in parte è scomparsa (con il restringimento della classe operaia), in parte è stata ceduta alla destra, che difende il lavoro autonomo e il diritto delle periferie ad aver paura dell’immigrazione”.

Non è un po’ il solito “complesso dei migliori” in cui cade la sinistra: “Solo noi sappiamo cosa è giusto e ve lo imponiamo, democraticamente”?

“In realtà, come accennavo prima, al complesso dei migliori è subentrata la prepotenza dei paladini del bene. Ma non è strano, se si evidenziano tutti i passaggi. Dopo il 1989 c’è stata una saldatura fra l’establishment politico-finanziario, che vuole solo globalizzazione e frontiere aperte, l’establishment mediatico, che vuole solo intrattenimento, internet e buone cause (dal riscaldamento globale al Black Lives
Matter), e l’establishment politico progressista, che vuole solo espandere il proprio potere per guidare il cambiamento sociale. Avendo quasi tutti i poteri forti dalla propria parte, l’establishment progressista si è fatto più aggressivo: non gli basta dire ‘noi siamo moralmente superiori’, ora pretende di stabilire come dobbiamo parlare, come dobbiamo comportarci, a quali valori dobbiamo inchinarci”.

Creando delle categoria protette il paradosso è che la discriminazione rischia di essere doppia: per chi ne è fuori, ma anche per chi è dentro, in un certo senso ghettizzato come specie da tutelare. Neri, donne, omosessuali non sono semplicemente persone?

“È così, e molte femministe lo hanno capito. Forse l’effetto sociale più importante del ddl Zan è stato di spaccare il mondo femminista”.

Dalle favole riscritte al linguaggio declinato in chiave inclusiva: l’attenzione, a volte ridicola, nel proteggere queste categorie per non urtarne la sensibilità le protegge davvero?

“È difficile valutare quale sia il saldo fra gli effetti di protezione e quelli di umiliazione. Quel che però mi sembra indubbio è che ci sono anche effetti negativi sui non protetti: la protezione speciale accordata a determinate categorie, inevitabilmente suscita il risentimento delle categorie escluse. E poi c’è l’effetto perverso del linguaggio politicamente corretto: a forza di proclamare che non devi dire negro ma nero, non devi dire handicappato ma diversamente abile, non devi dire cieco ma ipovedente, automaticamente metti in mano ai portatori di cattivi sentimenti un armamentario di parole contundenti che prima – quando Cesare Pavese parlava tranquillamente di negri, e Edoardo Vianello esaltava i Watussi ‘altissimi negri’ – semplicemente non c’erano, perché quelle parole erano neutre, puramente descrittive. È come se, a un certo punto, qualcuno avesse deciso che per ogni cosa che nominiamo, debbano esistere due termini, uno rispettoso e l’altro irrispettoso, anziché un solo termine neutro: come si fa a pensare che sia una buona idea?”.

Poi, però, la difesa a spada tratta non vale sempre. Su Saman la sinistra ha taciuto, perché?

“La sinistra ha un occhio di riguardo per l’Islam, e le persone di sinistra coraggiose e intellettualmente oneste (come Ritana Armeni, che ha denunciato il silenzio sul caso di Saman), sono troppo poche”.

Ma la strumentalizzazione ad uso e consumo della politica può essere un boomerang. Come nel caso di Malika, la ragazza lesbica ripudiata dalla famiglia ‘usata’ come eroina pro ddl Zan. Poi, si è scoperto che con i soldi raccolti per sostenerla si è comprata auto di lusso e cani di razza. Anche qui tutti zitti da sinistra. Dice che avranno imparato qualcosa?

“No. L’incapacità di imparare dall’esperienza è uno dei tratti del software mentale dell’establishment progressista”.

Lei ha dichiarato di essere stato abituato a pensare che la censura fosse “una cosa di destra” e che la difesa delle libertà di opinione, di pensiero e di espressione fossero “ben incise nelle tavole dei valori del mondo progressista”. Ora ha cambiato idea?

“Il trionfo del politicamente corretto, ma soprattutto l’autocensura in atto da anni fra scrittori, giornalisti, artisti, intellettuali, mi hanno costretto a prendere atto che sinsitra e libertà di espressione sono diventate due cose incompatibili”.

Il ddl contro l’omotransfobia del centrodestra, con Licia Ronzulli come prima firmataria, tutelerebbe meglio la libertà di espressione?

“Ovviamente sì, ma non abbastanza. Finché non si riscrive la legge Mancino la libertà di espressione è in pericolo, perché quella legge lascia in mano ai giudici la facoltà di stabilire se una certa idea determina oppure no il ‘concreto pericolo’ di azioni violente o discriminatorie”.

Lei che è dichiaratamente di sinistra viene citato spesso dalla destra. Come vive la cosa?

“Potrei dirle, citando una frase di Alfonso Berardinelli del 2005: ‘non credo che la sinistra sia di sinistra’. Ma c’è una risposta più radicale, che mi trovo costretto a darle: la realtà è che alcune, fondamentali, bandiere della sinistra sono passate a destra”.

Quali?

“Almeno tre: la libertà di espressione, chiaramente insidiata dal politicamente corretto; la difesa dei veri deboli, che oggi sono innanzitutto i membri della ‘società del rischio’, ossia le partite Iva e i loro dipendenti, esposti alle turbolenze del mercato ed ora decimati dal Covid; e poi la parità uomo-donna in politica, un tema su cui la sinistra è addirittura retrograda. Le sembra possibile che, in tanti decenni, non sia mai emersa una leadership femminile a sinistra né in Italia né in Europa? È mai possibile che un elettore che auspicasse un premier donna sia costretto, oggi come in passato, a guardare a destra? In Europa tutti i leader-donna importanti degli ultimi 50 anni sono di destra: Margareth Thatcher, Angela Merkel, Marine Le Pen, Marion Le Pen, Theresa May, Ursula von der Leyen, Giorgia Meloni. Come possiamo credere in una sinistra in cui tutti i posti chiave sono occupati da maschi?”.

E se gliel’avessero detto trent’anni fa, che sarebbe diventato simbolo di libertà di pensiero per la destra contro le degenerazioni ideologiche della sinistra?

“Non ci avrei creduto, trent’anni fa. Ma vent’anni fa, quando scrissi La frattura etica e cominciai a lavorare a Perché siamo antipatici?, forse sì”.

Da sinistra però qualche nemico se lo sarà fatto per le sue ‘sparate’ politicamente scorrette?

“Mi spiace che lei le definisca ‘sparate’, io di solito mi baso sui miei studi, e sono piuttosto analitico, poco umorale. Anche se, questo lo ammetto, non ho peli sulla lingua. Quanto ai nemici a sinistra, non saprei. Quel che mi succede è semplicemente di essere ignorato. Pochissime recensioni, nessuna intervista, rari inviti in tv. L’establishment di sinistra, fatto non solo di politici ma di giornalisti, scrittori,
conduttori televisivi, operatori culturali, si comporta come se avesse paura del confronto di idee, e forse anche per questo si è così spesso lasciato spiazzare dai cambiamenti della realtà”.

Ma soprattutto: quella italiana, il Pd di Letta si può ancora definire sinistra?

“No, non è sinistra, ma non è nemmeno destra. Il Pd di Letta è semplicemente establishment, nient’altro che establishment”.

Lei si riconosce in questa sinistra o no?

“No”.

Non sarà davvero diventato di destra?

“No. È la destra che è diventata un po’ di sinistra”.

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