Per le toghe rosse è razzista il sindaco che vuole “accogliere solo i migranti sani”. Ma i cittadini stanno con lui

Di Patrizia Maciocchi – È razzista l’ordinanza con la quale il sindaco subordina l’insediamento in città di africani e latino americani, anche temporaneo, al possesso di un certificato che dimostri l’assenza di malattie trasmissibili. Una prova non richiesta, naturalmente, a cittadini italiani e di altre nazionalità e pretesa, con un provvedimento d’urgenza, in assenza di qualunque emergenza igienico sanitaria. La certificazione richiesta era in più impossibile da ottenere per i destinatari dell’ordinanza: in genere stranieri senza fissa dimora, che non potevano usufruire del Servizio sanitario nazionale.

L’ordinanza discriminatoria

A finire nel mirino dei giudici l’ ordinanza firmata dall’ex primo cittadino di Alassio, nel luglio 2015, quando era forte la presenza di stranieri sul lungomare della cittadina ligure, segnalata anche dalle ronde svolte da solerti cittadini. Il rimedio era stato l’atto «emesso con il supporto della maggioranza politica l’assenzo del segretario comunale e anche dopo aver sentito il parere del comandante della polizia municipale». Tutti d’accordo nel far scattare il semaforo rosso all’ingresso nel territorio in assenza di «regolare certificato sanitario attestante la negatività da malattie infettive e trasmissibili». Per questo il sindaco si era visto notificare dal Gip del tribunale di Savona un decreto di condanna, chiesto dal sostituto procuratore, con una sanzione di 3750 euro per “discriminazione razziale”.

La solidarietà al primo cittadino

Il primo cittadino però non si era arreso. E – incassando la solidarietà dell’allora segretario della Lega Nord della Liguria, dell’ex capogruppo di Forza Italia nel consiglio regionale e anche del presidente della Regione, aveva proseguito la battaglia a tutela della salute dei suoi cittadini, negando qualunque forma di razzismo e affermando l’importanza della prevenzione e della tutela della salute pubblica. La promessa era stata di riproporre l’ordinanza e di arrivare fino in Cassazione. La Suprema corte però lo condanna.

La legge 654/1975 sull’incitamento all’odio razziale

E lo fa alla luce della legge 654/1975 articolo 3, che punisce chi diffonde “in qualsiasi modo” idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale. Chi incita alla discriminazione, “in qualsiasi modo”. Ad avviso degli ermellini non ci sono dubbi sulla portata razzista dell’ordinanza. Un reato per il quale – ribadiscono i giudici di legittimità – non basta neppure un generico sentimento di antipatia o rifiuto, ci vuole di più: un sentimento idoneo a determinare un concreto pericolo di comportamenti discriminatori. La discriminazione per motivi razziali è fondata sulla qualità personale del soggetto e non sui suoi comportamenti. Per la Suprema corte questo è il caso dell’ordinanza “incriminata”. Era inesistente un pericolo per la salute pubblica che fosse comunque collegabile a soggetti di un’etnia diversa da quella italiana. In assenza di un rischio sanitario la discriminazione è legata all’individuazione dei soggetti destinatari dell’obbligo: solo africani e latino americani. Persone che, anche volendo, non avrebbero potuto, tra l’altro, avere la certificazione richiesta.

Nel mirino la razza non i comportamenti

Tanto basta per affermare che «si è realizzata una forma di discriminazione, attraverso un atto amministrativo, su pura base razziale, senza spiegare nè indicare la ragione per la quale i soli soggetti aventi quell’etnia dovessero essere “pericolosi” per la salute pubblica e si è richiesta per il superamento una prova irrealizzabile per la ragione indicata, non potendo la Asl rilasciare certificati aventi quel contenuto». La Suprema corte afferma anche l’esistenza del dolo specifico, per il quale basta il fine che chi agisce si prefigge a prescindere dal fatto che poi lo raggiunga o meno.

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