Dalle svendite pubbliche, derivati, ai giochetti sullo spread. Ecco chi è davvero il burocrate Mario Draghi

Di Filippo Burla – Roma, 3 feb – E pensare che stiamo parlando di un allievo di Federico Caffè, tra i massimi esponenti del pensiero keynesiano in Italia. Professore instancabile, attento ai temi dello Stato sociale e della distribuzione del reddito. Eccezione che conferma la regola: con Mario Draghi la mela cade lontanissima dall’albero.

E pensare anche che, nel 1970, il futuro presidente della Bce si laureava alla Sapienza con una tesi nella quale sosteneva che non esistessero le condizioni per una moneta unica europea. Non esistevano nemmeno vent’anni dopo, al momento della firma del Trattato di Maastricht. E neppure nel 1999, quando venne fissato il cambio irrevocabile che avrebbe portato, nel 2002, l’euro a circolare nelle nostre tasche. Ma transeat: una nomina a capo dell’Eurotower permette di cambiare idea al bisogno.

Draghi dg del Tesoro: tra svendite pubbliche e derivati

Facciamo un passo indietro. Dopo una breve carriera accademica, Mario Draghi sbarca nelle istituzioni pubbliche. Prima come consigliere del ministro del Tesoro Giovanni Goria e poi, dal 1991, come direttore generale dello stesso dicastero. Manterrà la carica fino al 2001, passando per ben 10 governi, tutti impegnati nell’immane opera di (s)vendita del patrimonio industriale pubblico. Sono gli anni delle privatizzazioni e dello smantellamento dell’Iri e Draghi è lì, in prima fila, a dirigere il tutto. L’obiettivo dichiarato è quello di aggredire il debito pubblico. Il quale calerà sensibilmente, ma per merito della contestuale riduzione dei tassi di interesse reali e non certo grazie agli introiti di cessioni fatte, spesso e volentieri, un tanto al kg: se hai fretta di sbarazzarti di qualcosa il prezzo lo fa l’acquirente, non il venditore. L’Italia ne uscì letteralmente devastata dal punto di vista industriale e dobbiamo ringraziare l’arrivo di Giulio Tremonti (ministro dell’Economia dal 2001 al 2004) se l’eutanasia non venne portata a compimento.

Di quel periodo, oltre alle mazzate all’industria di Stato, si ricorda anche una gestione delle finanze a dir poco allegra. Parliamo dei derivati sottoscritti dal Tesoro e necessari per far quadrare i conti ai fini dell’ingresso dell’Italia nei parametri per l’eurozona. Ministro era Ciampi, ma fu Draghi a sottoscriverli materialmente. Una sciocchezza che, negli anni (e pure replicata successivamente) ci costerà svariati miliardi.

Banca d’Italia. Poi macellaio alla Bce

Dopo un rapido passaggio a Goldman Sachs (le porte girevoli sono sempre in funzione), Draghi nel 2005 giunge ad occupare lo scranno più alto di Banca d’Italia. E’ da qui che inizia, in qualche modo, la sua carriera “politica”. Note sono le continue esortazioni al taglio della spesa, al controllo dell’inflazione, alla necessità di riformare il mercato del lavoro.

Posizioni che mantiene – e consolida – quando, nel 2011, viene scelto quale presidente della Banca centrale europea. Non passano che pochi mesi dalla nomina quando, il 5 agosto, firma insieme al presidente uscente Jean-Claude Trichet l’ormai famosa lettera indirizzata al governo Berlusconi. Nella missiva si chiedeva uno sforzo in termini di contenimento della spesa da attuarsi, fra le altre cose, tramite il taglio degli stipendi pubblici e la riforma delle pensioni. L’esecutivo avrebbe avuto tempo fino all’inizio di settembre per tradurre in pratica le richieste. In caso contrario – era il sottinteso – la Bce avrebbe limitato il sostegno ai Titoli di Stato italiano in termini di acquisti sul mercato secondario. Il resto è storia. La crisi dello spread, esplosa a novembre di quell’anno, portò all’insediamento del governo Monti. Ne nacque la stagione – mai finita – dell’austerità, che ci portò alla seconda recessione dopo quella conseguente alla crisi finanziaria d’oltreoceano.

Draghi sicario della Grecia (e quei giochetti sullo spread italiano)

Non poteva finire qui. E’ il 2015 quando, nel corso di una delle tante turbolenze della penisola ellenica, i cittadini della Grecia sono chiamati ad un referendum sull’ennesimo piano lacrime e sangue cui l’Eurogruppo intendeva sottoporre Atene. Non sia mai che il popolo sovrano possa esprimersi (ma lo farà, coraggiosamente, venendo poi tradito da Tsipras): la Bce di Draghi chiude – letteralmente – i rubinetti. Dopo aver deciso di non accettare più i “sirtaki bond” come collaterale in inverno, ad inizio estate ed in coincidenza dell’annuncio del referendum arriva anche il congelamento della liquidità per gli istituti di credito. Risultato: banche chiuse e prelievi limitati a non oltre 60 euro al giorno.

Fatte le prove generali, Draghi si fa prendere la mano. Arriviamo così a maggio 2018. Sono le settimane convulse per la formazione del governo gialloverde. Con il Quirinale, tra le altre cose sul nome di Paolo Savona, non si trova la quadra. Ed ecco che arriva l’aiutino da Francoforte: adducendo presunte motivazioni tecniche la Bce acquista meno Btp rispetto al solito, facendo di conseguenza impennare lo spread. Partono i titoli a nove colonne, la grancassa mediatica rievoca lo spettro del 2011. Risultato: il governo Lega – 5 Stelle vedrà la luce, ma senza Savona all’Economia. Lo scherzetto si ripeterà ancora in autunno, con le trattative sul deficit (poi limato dal 2,4 al 2,04%). Draghi non era più governatore, già sostituito da Christine Lagarde, ma il meccanismo ormai era rodato.

Filippo Burla

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