Se n’è accorta pure Repubblica: clamoroso boom economico dopo la Brexit. Il piano Johnson vale +7,8% di Pil

Di Antonello Guerrera LONDRA. A metà dell’anno scorso, il Regno Unito era considerato il Paese più segnato dal crollo del Pil tra quelli Ocse, a causa della devastazione dell’epidemia da Covid. L’anno scorso il Pil britannico è sprofondato a – 9,8%, la peggiore economia del G7. Ora però, dopo nemmeno un anno, le stime mostrano un mondo alla rovescia. Londra, infatti, secondo uno studio di Goldman Sachs, nel 2021 (ri)crescerà più di tutti, anche degli Stati Uniti di Joe Biden: +7,8% di Pil contro +7,2%. Secondo Sven Jari Stehn, economista della banca americana, quest’anno “il Regno Unito andrà ben oltre il +5,5% calcolato dal Bloomberg Consensus” e pure della media di crescita mondiale prevista dal Fmi (6%). La Banca d’Inghilterra, difatti, ora parla di una crescita per quest’anno dello 7,25%, sebbene il ritorno ai livelli pre-Covid sia previsto soltanto nel 2022: il Pil di marzo 2021 è difatti ancora del 5,9% inferiore a quello di febbraio 2020.

Come è stato possibile questo recupero, quasi miracoloso, da parte di Londra, rispetto agli altri Paesi? Goldman Sachs non ha dubbi: lo straordinario piano vaccinale del governo di Boris Johnson, con oramai oltre 63 milioni di inoculazioni e quattro quinti della popolazione adulta che ha ricevuto almeno una dose, unito al lungo lockdown totale iniziato il 3 gennaio scorso che ha abbassato di molto i contagi e dal quale si sta uscendo lentamente solo in queste settimane. Obiettivo: 21 giugno, quando si dovrebbe tornare a una sorta di normalità pre Covid, variante indiana permettendo. Questo benefico mix di misure e immunità non solo ha fatto crollare i decessi (-97% rispetto al picco della seconda ondata) e i ricoveri ospedalieri (siamo al 3% rispetto al record negativo dello scorso gennaio) ma sembra abbiano ridato un enorme senso di fiducia. Non solo ad addetti ai lavori ed economisti, ma anche agli imprenditori e agli stessi consumatori.

Ci sono soprattutto due aspetti da considerare. Il primo: l’eccezionale sostegno dello Stato britannico a imprese e lavoratori durante la pandemia. E cioè: cassa integrazione nazionale (80%) a tutti, nel settore pubblico e nel privato, prestiti e aiuti a pioggia per negozi e attività non essenziali costrette a chiudere nel mesi scorsi. Certo non basteranno a salvare tutti gli occupati: quando questi aiuti finiranno – il prossimo autunno – ci sarà di certo un impatto sui 4,2 milioni di lavoratori al momento sostenuti dalla cassa integrazione. Ma è anche vero che negli ultimi due mesi la disoccupazione in Regno Unito è paradossalmente scesa: dal 5,1% di gennaio, al 5% di febbraio fino al 4,9% di marzo. Un ottimo segnale. In pratica, le imprese hanno paradossalmente ripreso ad assumere già durante il lockdown totale in corso in quei mesi.

C’è poi un secondo fattore importante: i britannici hanno tanti soldi da spendere in questo momento, proprio grazie ai sostanziosi aiuti dell’ultimo anno concessi dal governo, tutti soldi cash e disponibili in poche ore. Così, la ricchezza privata familiare è salita a 11mila e 400 miliardi di sterline (circa 13mila miliardi di euro), ossia l’equivalente di 172mila sterline a cittadino britannico (circa 180mila euro), secondo i dati dell’istituto nazionale di statistica Oms. A provocare questo fenomeno, anche i prezzi delle case che nonostante la pandemia sono saliti senza sosta oltremanica: +8,5% a dicembre 2020 rispetto a un anno prima. Questo anche grazie alle leggi del governo Johnson sul mercato immobiliare, per cui è tuttora sospesa la tassa del passaggio di proprietà (escluse case milionarie), facendo sì che il mercato immobiliare, e dunque quello dei mutui, sia più o meno ai livelli pre-pandemia. Anche il settore delle costruzioni è “rimbalzato” del +1,6% tra gennaio e febbraio 2021, in pieno lockdown.

Tutto questo fa sì che la fiducia tra i consumatori sia letteralmente esplosa appena hanno riaperto pub, ristoranti e negozi non essenziali qualche settimana fa: il numero di persone che hanno pranzato o cenato al ristorante nel Regno Unito nell’ultimo mese sono il 75% in più rispetto ai livelli dello stesso periodo di due anni fa, ben prima dell’esplosione dell’emergenza Coronavirus. L’utilizzo dei trasporti pubblici è ai massimi dal marzo 2020, mentre le vendite al dettaglio al momento registrano un +10% rispetto ai livelli pre-pandemici, con i picchi soprattutto nei settori di abbigliamento e calzature. Insomma, sembra essere di fronte alla più grande crescita nel settore privato britannico dalla fine degli anno Novanta, sottolinea il Guardian. Mentre la Confindustria britannica Cbi ha registrato un indice di fiducia nel settore manifatturiero così alto che non si vedeva dal 1973.

Questa ripresa ha un costo ovviamente. Durante la pandemia il debito pubblico britannico ha sfondato quota 100%, crescendo di oltre 20 punti, proprio per sostenere lavoratori e imprese, con ottimi risultati come dicevamo. Solo ad aprile 2021, il governo britannico ha chiesto in prestito quasi 32 miliardi di sterline, che sono comunque 16 in meno di un anno fa quando la pandemia era appena iniziata. Ciò ha già avuto una prima conseguenza: un piccolo rialzo delle tasse, che potrebbe aumentare ancora di più negli anni a venire soprattutto nei confronti dei più ricchi e delle multinazionali. Insomma, il Regno Unito di Boris Johnson sembra in grande vantaggio rispetto agli altri Paesi occidentali in termini di ritorno a livelli economici soddisfacenti. Tuttavia ci sono ancora dei punti interrogativi.

Secondo uno studio della Oxford Martin School, riportato dal FT, denaro a pioggia e consumi alle stelle infatti non bastano a lungo termine, in quanto varrebbero soltanto uno 0,4% di crescita di Pil, mentre la produttività britannica, e occidentale, nel decennio prima del Covid è stata relativamente bassa, con tassi di crescita flebili. Per questo, come ha chiesto la Confindustria “Cbi”, servono riforme fiscali, deregulation, più innovazione e una spinta ancora più decisa verso l’obiettivo di emissioni zero per rendere l’economia britannica post Brexit seriamente competitiva: roba che innescherebbe circa 800 miliardi di euro  di crescita economica aggiuntiva, secondo la Cbi. Poi c’è l’inflazione, che in aprile nel Regno Unito è raddoppiata fino all’1,5%, vicino al livello di guardia del 2%, a causa del forte aumento dei costi delle materie prime. La Banca d’Inghilterra, di conseguenza, potrebbe aumentare i tassi, ora ai minimi, e quindi limitare l’influsso di denaro dalle banche nella società.

Insomma, la strada è lunga. Una ricerca del think tank Resolution Foundation e della London School of Economics parlano di “rischio Italia” per il Regno Unito. Ovvero che l’economia britannica, nonostante questo boom degli ultimi mesi, possa diventare anemica e lumaca “come quella italiana”. I rischi sarebbero cinque: uno smart working che metterebbe a dura prova il mercato del lavoro, le conseguenze a lungo termine della Brexit, una rivoluzione ecologica troppo rallentata, un’automazione e innovazione troppo veloci che potrebbero mettere a rischio un lavoro su 7 nel Regno Unito nei prossimi 15-20 anni e infine una popolazione britannica sempre più anziana. Tutte cose che a lungo termine potrebbero ostacolare, sensibilmente, la grande ripresa sinora intrapresa dal governo di Boris Johnson.

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